sabato 11 ottobre 2014

Lecce in un articolo di Antonio Verri

"Che fascino quella Lecce"un articolo di Antonio Verri sul Quotidiano di Lecce del 12 aprile 1980
ritrovato grazie a Franco Ungaro

sabato 10 maggio 2014

Il 9 maggio... del volo



venerdì 9 maggio 2014
A colui che volò su un albero d'argento in una notte di maggio...!
(La grafica e la dedica sono di Antonio Chiarello)


Venerdì 9 maggio, dalle 19.00, appuntamento al Fondo Verri, in via Santa Maria del Paradiso 8, a Lecce, per ricordare Antonio Verri nel giorno del suo volo! Un incontro per fare il punto sull'Anno Verriano e sulle prossime iniziative.

Di nuovo c'è molto:

Sul fronte editoriale:

L'uscita della "Salle de bain" da Il Laboratorio di Aldo D'Antico
Le prossime uscite da Kurumuny dei tre libri già pubblicati (La Betissa, Il Pane e il Fabbricante) più le "Lettere da Yverdon" a cura di Maurizio Nocera.
La prossima uscita di una nuova edizione di "Bucherer l'orologiaio" illustrata da 10 illustratori italiani...

Per quanto riguarda il Fondo Contemporanea a Cursi
è annunciata per la prossima settimana la firma di un protocollo tra l'Università del Salento e il Comune di Cursi per una nuova agibilità dello spazio e l'assegnazione di due tesi per la documentazione e il riordino del Fondo donato da Antonio Verri a quel Comune.

Rimane, rispetto ad intenti precedentemente espressi...
- da contattare l'Amministrazione Comunale di Caprarica per combinare l'iniziativa "Caprarica del Poeta", ma anche in quel senso presto avremo novità.
- da avviare il percorso di formalizzazione per un convegno di studi dedicato ad Antonio, alla sua scrittura e alla sua opera...

Contando sulla presenza di chi sente viva e vicina l'opera di Antonio...


sabato 26 aprile 2014

La salle de bain, "uno studio del Riuso"



 
Antonio Verri in una posterizzazione di una fotografia di F. Bevilacqua

Fra pochi giorni da Il Laboratorio di Parabita di Aldo D'Antico l'edizione de La salle de bain, inedito di Antonio L. Verri. Vi anticipiamo la Postfazione di Simone Giorgino.


Un viaggiatore una volta chiese alla domestica di Wordsworth di mostrargli lo studio del suo padrone, e lei rispose: «questa è la biblioteca, ma il suo studio è la fuori, oltre la porta».
Antonio Verri, La salle de bain



Il bizzarro libro che abbiamo fra le mani, La salle de bain di Antonio Verri, esiste per davvero o non esiste? La riflessione attorno allo status della Salle può sortire effetti decisivi per un più corretto inquadramento storico-critico dello scrittore, aiutandoci a comprendere le direttrici della sua ricerca stilista che, malgrado l’apparentemente anarchico e a tratti furioso sperimentalismo, riconducibile, di primo acchito, al côté della scrittura automatica, risulta, invece, sempre molto sorvegliata, come attestano, peraltro, non solo alcune fondamentali riflessioni estetiche disseminate dall’autore nel corso della sua lunga attività di critico militante, ma persino alcuni marginalia e le pagine dell’importantissimo Diario che Maurizio Nocera sta per pubblicare. In una di queste si legge, appunto: «La salle de bain non esiste. Avevo pure cercato di salvarla in qualche modo […]. A parte i capitoli che ancora sottoscrivo, e che userò, ci sono molte banalità teoriche spacciate per narrativa. E quando due mesi fa mi hanno telefonato che la stavano prendendo in considerazione […] ho risposto di no […]. Il movimento interno, quel “movimento”, più una leggerezza oscena, saranno i soli […] punti fermi di questo libro che vorrei scrivere». In questo senso, dunque, La salle de bain non esiste, ovvero il suo autore non la riconosce come oggetto letterario finito, negandogli l’imprimatur e bloccandone, di fatto, la circolazione in vista di una pubblicazione più ‘matura’, un nuovo testo riscritto e ampliato, che noi oggi leggiamo col titolo di Bucherer l’orologiaio, il romanzo postumo pubblicato dalla Banca Popolare Pugliese nel 1995 su iniziativa di Aldo Bello e Antonio Errico. Quest’ultimo scrive, nel 2002, un interessante articolo, intitolato Tutta la vita per un declaro, che ripercorre la genesi redazionale della Salle e la successiva decisione di effettuarne una drastica revisione: 

               A Roca, una sera, una quasi notte della fine di agosto del novantuno, Verri mi diede un dattiloscritto di trentasette cartelle intitolato La salle de bain, perché gli dicessi che cosa ne pensavo. Lessi il lavoro. Lo rilessi. Ci rivedemmo un po’ di giorni dopo in un’osteria. Con quell’affetto presuntuoso che mi faceva sentire mia la sua scrittura, così come la sua grande umiltà gli faceva sentire sua la mia, dissi che quel racconto lungo non reggeva. Mancava di un’architettura narrativa; era metatestuale, metanarrativo. In quelle pagine parlava del suo senso della letteratura senza quelle situazioni di mediazione, di ponte verso il lettore, che invece c’erano ne I trofei della città di Guisnes e nel Naviglio innocente, che pure erano scrittura sulla scrittura. La salle de bain non fu mai dato alla stampa in quella versione. Verri ci lavorò sopra, intorno, dentro. Per un anno e mezzo. Nel maggio del novantatré mi consegnò un dattiloscritto di settantasette pagine con il titolo di Bucherer l’orologiaio  nel quale aveva fatto confluire La salle de bain. Mi chiamò tre sere dopo per chiedermi se avessi finito di leggerlo. Gli risposi che mi mancava qualche pagina, ma che stavolta comunque funzionava. Questa volta sì che funzionava. La notte alle quattro mi telefonò sua moglie per dirmi che era andato via.

Tra l’una e l’altra redazione dell’opera estrema di Verri – sempre ammesso che La salle de bain possa essere derubricata a materiale preparatorio del Bucherer e non considerata come lavoro a sé stante –, esistono, però, sostanziali differenze che sono state recentemente messe in luce da una ricerca di Francesca Greco, fresca testimonianza di una nuova primavera di studi critici sullo scrittore salentino e di un mai sopito interesse nei suoi confronti. Verri riscrive praticamente quasi tutti i capitoli della Salle, ad eccezione del solo capitolo 6 e dei Cifrari, con l’evidente intento di espungere gli elementi più marcatamente metanarrativi, in ragione del fatto che la metafora dello scrittore al lavoro, cioè il gioco di riflessi e diffrazioni che vede specchiarsi la scrittura nella scrittura, il libro nel libro ecc…, onnipresente nel romanzo di partenza – sono queste, forse, le «banalità teoriche» cui Verri si riferiva nel suo Diario? –, è sostituita, in Bucherer, dalla più raffinata metafora dell’artigiano-inventore intento a costruire un suo strabiliante congegno. I brani confluiti nell’opera postuma, come detto, sono stati oggetto di severe revisioni, tagli e manomissioni e solo saltuariamente si è scelto di conservare immutato il testo di partenza. Le parti scritte in lingue straniere sono state drasticamente ridotte, e così anche il numero degli improbabili personaggi-situazioni che affollavano il cicalante melting pot della Salle, creando, come ha giustamente osservato Cosimo Colazzo, più che una trama, un insieme frammentario di «stringhe», di «sequenze ripetitive, senza profondità»: «Verri utilizza il concetto di stringa per trovare una dimensione narrativa, come produzione di sequenze adinamiche». Questo ‘concentrato’ testuale è stato poi collocato all’altezza dei capitoli V, VI, X, XII, XIII e XVII del Bucherer, conferendo al nuovo romanzo quelle caratteristiche e quei «punti fermi» che Verri voleva salvaguardare dal testo di partenza, e cioè un «‘movimento’» narrativo fluido e una «leggerezza oscena», rappresentata dalle appartate elucubrazioni partorite (evacuate?) negli ambienti ovattati di una sotterranea ‘sala da bagno’, «un mondo sotterraneo, immenso, incredibile, inaspettato. Nel cuore meccanico della città» (p. 7), a mille miglia dal mondo ma «ad un palmo dal selciato» (p. 47).
La salle de bain, dunque, non esiste. Eppure, a dispetto delle intenzioni di Verri, il testo, consegnato ad alcuni amici per conoscerne le impressioni e per saggiarne la ‘tenuta’, ha cominciato, suo malgrado, a circolare e ad avere pian piano una vita autonoma, accompagnato da un’aurea di mistero e da una devozione alimentata anche dalle tragiche circostanze della scomparsa del suo autore. Fabio Tolledi, uno di quei fortunati «pre-lettori» (uso il lessico verriano), ne ha ricavato un fortunato recital portato in scena al teatro Paisiello di Lecce fra il febbraio e il maggio 2011, mettendo anche online, sul sito di Astragali, una parte consistente del suo lavoro; Cosimo Colazzo ne ha parlato in maniera attenta e diffusa nel suo intervento dal titolo “La salle de bain” e l’estremo orizzonte del “Declaro” nel recente numero speciale della rivista «Marsia» dedicato a Verri (a. III, n. 1, dicembre 2013, pp. 3-14); al Fondo Verri di Lecce si sono tenute diverse letture pubbliche della Salle a cura di Mauro Marino e Piero Rapanà; e infine, ora, Aldo D’Antico ha deciso di pubblicare la versione da lui posseduta, peraltro con la stessa veste tipografica già utilizzata dal suo Laboratorio per I trofei della città di Guisnes, dando così l’opportunità ai lettori di conoscere il contenuto di questo oggetto misterioso.
L’opera è stata scritta di getto nell’agosto del 1991 a Roca, una delle località più suggestive del litorale adriatico salentino, ma il paesaggio che fa da sfondo alle vicende narrate non è quello che lo scrittore de La cultura dei Tao ci aveva più volte rappresentato nei libri precedenti: in quest’ultima fase della sua purtroppo breve attività, Verri sceglie di ambientare le sue storie in Svizzera: più precisamente, La salle de bain è ambientata a Yverdon-Les-Bains, centro termale noto per le sue acque sulfuree, da lui personalmente visitato nel 1986, nel 1988 e nel 1990 in occasione di alcuni incontri di poesia aperti a scrittori di varia nazionalità; e Bucherer l’orologiaio è ambientato a Zurigo, città che Verri aveva conosciuto da giovane immigrato in cerca di fortuna.
È, questa, una fase del suo percorso creativo che Verri avverte – si potrebbe dire, forse, profeticamente – non come transitoria, ma come finale, conclusiva: «Una volta raccontavo dell’inizio del mondo, del profumo artificiale, non spontaneo. Oggi il dissesto, la fine» (p. 18); la sua ricerca si è fatalmente impantanata in «qualcosa di sconosciuto, di difficile, di incerto, di sicuramente finale» (p. 47). La salle de bain rappresenta, a mio avviso, lo specchio di un periodo d’indolenza non dico creativa, ma un qualcosa che ha a più che fare con l’otium dei latini, o piuttosto con l’amara consapevolezza dell’aleatorietà dell’intero progetto di una vita, un momentaneo risveglio dal ricorrente, ossessivo sogno del Declaro, cioè il desiderio ambizioso di racchiudere il mondo dentro un libro, nel sempre vano tentativo di rappresentare ciò che non è permesso rappresentare – «come annotare l’inesprimibile, come fermare la vertigine, l’allucinazione della parola?», si chiede Verri in un importante passo della Salle (p. 55) –, cioè la multiforme e pulsante varietà del mondo nell’esiguo spazio di un’opera letteraria.
C’è una sorta di piacere che l’autore sembra provare in una temporanea (ma non si sa quanto lunga) sosta del suo cammino, nel torpore umbratile di un’oasi fatta di parole e di storie semigrezze che Verri indugia ad assaporare a fior di labbra, o per la loro valenza fonica o per il gusto del racconto fine a se stesso: «Ma so anche che fra me e il Declaro, tra Sally e il Declaro, c’è molta indolenza, forse piacere dell’ombra, paura di non so che, voglia di finirla» (p. 47); c’è come il timore di raggiungere la sempre agognata «forma perfetta», la cui fissità fa ribrezzo perché ricorda da vicino il freddo cadaverico del rigor mortis; e c’è il desiderio di scongiurare quella rigidità attraverso una litaniante logorrea, modulata come un’ininterrotta formula magica attraverso cui far lievitare le cose e le parole, perché, come affermava Gilles Deleuze in un libro scritto insieme a un altro grande ‘minore’ salentino, Carmelo Bene, «ciò che conta è il divenire»:
  
"L’interessante è in mezzo, ciò che succede nel mezzo (au milieu). Non è un caso che la velocità massima sia in mezzo. […] il passato e anche l’avvenire, è storia. Ciò che conta, invece, è il divenire: divenire rivoluzionario. […] il divenire, il movimento, la velocità, il turbine, si trovano in mezzo. Il mezzo non è una media, è invece un eccesso. Le cose crescono nel mezzo. Era questa l’idea di Virginia Woolf. E il mezzo non vuol dire affatto essere nel proprio tempo, essere del proprio tempo, essere storico; al contrario. È ciò per cui i tempi più diversi comunicano. Non è né lo storico, né l’eterno, ma l’intempestivo. È proprio questo, un autore minore: senza avvenire e senza passato, ha solo un divenire, un mezzo, attraverso cui comunica con altri tempi, altri spazi". (Sovrapposizioni, Quodlibet, 2006, p. 90)

Verri si augura di non «cadere in una forma definitiva» (p. 30), e perciò continua a raccontare, quasi senza riprendere fiato, le sue private, piccolissime cosmogonie: «Lo Yn e lo Yo non si erano ancora divisi, formavano un ammasso caotico, simile ad un uovo, dai contorni vaghi, ma con dentro germi. Poi, la parte più pura e chiara si assottigliò, si estese e diventò il cielo; la parte più pesante e torbida si depose, e diventò la terra […] tra l’uno e l’altra sorsero esseri divini» (p. 39). Tutto, compreso il narratore, appare in balia di una metamorfosi continua e inarrestabile: «Trasformato di nuovo fui un salmone azzurro, fui un cane, fui un cervo, un capriolo sulle montagne, fui un bastone e una vanga; per un anno e mezzo fui un trivello in una fucina. Fui anche un gallo bianco picchiettato, voglioso di galline. Fui finalmente un sasso, un cristallo. Poi fui trasformato di nuovo!» (p. 41)… e così via, nel turbine di un continuo divenire, che non può (che non deve) interrompersi. Il senso del viaggio, ci dice Verri, non va ricercato nella meta che si sa irraggiungibile, ma nel percorso, nel viaggio stesso: «Non sarà mai come quello che avevo pensato. L’oggetto balena, il libro in cartisella, erano per accordarmi a questa bellezza così incerta, così imbarazzante» (p. 86). Né potrebbe essere altrimenti, dal momento che le cose e le parole non coincidono (ritorna qui un tema centrale in Verri, già affrontato dall’autore, per esempio, in un passo importante de La Betissa, Kurumuny, 2005, pp. 97-98), e l’idea di rappresentare il mondo attraverso le parole è un esercizio oltre che pericoloso, futile, un inane lambiccamento che non potrà portare mai a nessun risultato concreto: «Una volta avevo con le parole, con le quali avrei dovuto sostentare anche quest’ultimo mio libro, un rapporto così affascinante, una sorta di dipendenza attiva, un corteggiamento continuo» (p. 44).
È così che la Salle, come nota Colazzo, cerca una «forma proprio nello spazio dell’informe», nel disordine caotico di una sempre più sfilacciata città postmoderna: «Tracciati di mappe. Viari. Un pesce che danza mentre un signore distinto prova l’ecstasy» (p. 78), una città in cui si mescolano, senza soluzione di continuità, reperti e velleità letterarie assieme ai detriti della più triviale ‘società dello spettacolo’, e in cui si sente, sempre più assordante, «Il brusio dei media che nascono ogni giorno» (p. 18). A un certo punto del racconto, Verri scrive: «Mai è stata così impietosa la dissoluzione della tradizione» (p. 69). Ed è appunto in questa frenetica sperimentazione/dissoluzione, fatta d’impasti plurilinguistici («firmamento di lingue», p. 59), di abbozzi di racconto («Sto costruendo per flash, per fotogrammi, con frequenti spezzature di scena», p. 27), di personaggi che si sovrappongono al narratore («Ero praticamente in ogni storia ed ero la storia», p. 27),  dal riciclo di materiali già utilizzati nei libri precedenti – personaggi come Stefan, luoghi come Guisnes, intere frasi o brani ripresi da Il naviglio innocente o da La Betissa, che fanno della Salle una sorta di «studio del Riuso» (p. 22) –, dal gusto per le caotiche enumerazioni assemblate per colmare di suoni e di parole quel «Grande Nulla che ci hanno insegnato a temere» (p. 85), è da tutto questo verboso conglomerato che prende forma una letteratura dell’azzardo, portata avanti da chi preferisce continuare a scommettere sul rischio della variazione continua piuttosto che puntare sul facile consenso assicurato da modelli più convenzionali di scrittura: «Si punta sui packaging accattivanti per conquistare l’acquirente, e sulla qualità per non dispiacere al consumatore; poi c’è la letteratura gonzaghesca o quella di bube […] quello che è certo è che non si può fare a meno dei sognatori» (p. 36). E l’azzardo è, per Verri, un modo per essere fedeli a se stessi, per continuare a essere dei sognatori,  affidandosi al ‘gioco’ che più di ogni altro lo avvince, cioè il «piacere di scegliere, mescolare, accumulare» (p. 87): «Un azzardo. Un gioco, quasi. È un gioco sotterraneo, segreto, incruento, a cui l’autore non è certo estraneo: essere così vicino all’ombra, eppure essere così avvinto da qualsiasi mappa di superficie» (p. 80). Il libro-mondo è un progetto irrealizzabile, e questo Verri lo sa bene. Ma nel piacere dell’affabulazione, nel culto della parola e nella liturgia della scrittura, c’è dato ravvisare il senso stesso della sua ostinata e inconcludente ricerca: «Imperfetto com’ero, ero forse io la Bellezza» (p. 88).


Simone Giorgino

giovedì 20 febbraio 2014

Un incontro a Mesagne per Antonio Verri



Giovanni Galeone
 
Gli abitanti di Caprarica di Lecce restarono meravigliati nel vedere tanta attenzione rivolta ad un loro concittadino, il giorno dei funerali di Antonio Verri, il 10 maggio del 1993.
Vennero da ogni parte a rendergli omaggio, lo scrittore e meridionalista Vittore Fiore tenne l’orazione funebre, per circa 1 mese arrivarono nella sua casa lettere e messaggi di cordoglio anche da paesi sudamericani ed europei. Verri aveva costruito negli anni, con la sua frenetica attività letteraria ed editoriale, una rete di scambi, di incontri, di ponti che dal Salento portavano in Europa ed anche fuori.
Scomparso a soli 44 anni in un incidente stradale mentre tornava a casa, Antonio Verri è stato uno scrittore, poeta e animatore della scena letteraria salentina dalla fine degli anni ’70 agli inizi dei ’90. In quegli anni si dedicò anima e corpo a innumerevoli progetti editoriali, da “Caffè Greco” al “Pensionante dè Saraceni”, passando per il “Quotidiano dei poeti”, un’operazione editoriale quest’ultima unica ed impensabile: per 12 giorni consecutivi questo quotidiano fatto di sola poesia e stampato a Maglie, fu distribuito contemporaneamente attraverso una serie di collaboratori amici e militanti, in una decina delle principali città italiane, Roma, Milano, Napoli, Bari, Trento etc. Su una di queste riviste, Verri pubblicò nel maggio ’82, il suo testo lirico più conosciuto, indiscutibilmente il suo manifesto poetico “Fate fogli di poesia, poeti”, un affresco del suo impegno letterario, disinteressato e senza compromessi con il potere. Autore dei libri di poesia “Il pane sotto la neve” e “La betissa” e di opere di narrativa “Il fabbricante di armonia”, “I trofei della città di Guisnes”, “Il naviglio innocente”, “Bucherer l’orologiaio”, ascrivibili al filone del postmodernismo, Verri ha lasciato in eredità un condensato di creatività, non del tutto esplorato e rappresentato da testi in cui la scrittura lirica e barocca si fa canto trasognato di una terra amata, mai abbandonata, ma che lascia sulla pelle ferite profonde. Non è un caso che Verri abbia avuto come riferimento letterario imprescindibile Vittorio Bodini, altro poeta salentino della generazione precedente, legato alla terra in un rapporto viscerale di amore/odio; Verri ha celebrato nei suoi versi il grande poeta ispanista salentino: “Davanti non abbiamo altro/che la nostra terra/la stessa terra vergine/su cui Bodini/intendeva operare/(ed è nostro grande padre/se vogliamo cercarci dei padri)/creando dal niente/incidendo appunto/questa sua verginità” e mostra anch’egli una doppia anima: da un lato legato alla sua origine contadina, “al sibilo lungo che si può udire solo di mattina, mirando nella vastità dei campi, con accanto sentinelle silenziose gli alberi d’argento”,  dall’altro proteso in avanti, verso nuove ricerche, nuove fughe che non sono più fisiche ma mentali, con la creazione di “modi nuovi o parole di sangue.” 
Una lezione che ha lasciato tracce fertili di vitalità, dal 1997 è stato creato a Lecce nel centro storico il Fondo Verri, prezioso spazio culturale sostenuto da amici artisti e collaboratori dello scrittore, che si pone l’obiettivo di agire nel solco profondo lasciato dalle sue opere, conservare i suoi carteggi (ancora inediti) e mantenere viva la sua elaborazione letteraria.
Nel ventennale della sua scomparsa, l’anno appena trascorso, sono stati pubblicati ben 3 volumi su Verri, da Simone Giorgino “ Il mondo dentro un libro” – Lupo ed. a Rossano Astremo  “Con gli occhi al cielo aspetto la neve” – Manni ed. e a cura di Salvatore Francesco Lattarulo “Le pietre sopra le ali – 20 anni senza Antonio Verri” – Progedit editore che in realtà è un numero monografico della rivista di poesia Marsia, dedicato interamente al poeta, con interventi, testimonianze, interviste.

E’ proprio quest’ultimo volume che sarà presentato a Mesagne, nel Frantoio ipogeo nel centro storico, sabato alle ore 18,00 alla presenza del curatore e critico letterario Salvatore Francesco Lattarulo, su iniziativa dell’Associazione culturale “Amici della poesia Unozerouno” in collaborazione con la libreria locale “La carica dei 101”,  all’interno della rassegna letteraria promossa dal Comune di Mesagne – Assessorato alla cultura sul tema “del leggere e dello scrivere su radici, scambio e viaggio”, nell’ambito del progetto comunitario Tur.Grate 2. La rassegna vedrà altri 3 appuntamenti. Nel corso della serata saranno letti testi poetici e scritti di Antonio Verri, intervallati dalle musiche del chitarrista Fabio Di Viesto. Un piccolo contributo alla rivalutazione di una voce poetica pugliese in un panorama di conoscenza piuttosto desolato. Per conoscere in profondità l'anima della Puglia, non ci si può limitare alla valorizzazione di simboli del marketing (spiagge, pizzica e trulli), talora con qualche eccesso di retorica: sarebbe necessario invece ascoltare, leggere e far conoscere ad esempio le voci letterarie di Vittorio Bodini, Carmelo Bene, Rina Durante, Cristanziano Serricchio, Antonio Verri, Salvatore Toma, Raffaele Nigro. Invece nelle nostre scuole, nonostante il Ministero abbia concesso 1 ora alla settimana da dedicare alla cultura del territorio, questi autori restano praticamente ignoti agli studenti.
Giovanni Galeone


La Gazzetta del Mezzogiorno 11 febbraio 2014

 

sabato 15 febbraio 2014

Dopo l'Anno Verriano

Lecce, sabato 15 febbraio

Ieri, venerdì 14 febbraio, alle 16.00 , io (Mauro Marino), Massimo Melillo e Carlo Alberto Augieri ci siamo incontrati per avviare il percorso di lavoro verso un convegno di studi dedicato ad Antonio L. Verri. Si è pensato di costruire (attraverso l'attivazione di una mailing list) un percorso condiviso che è auspicabile sia capace di coordinare e di dare unitarietà alle diverse iniziative in atto e a quelle in divenire, non per desiderio di controllo ma per corrispondere al sentire e al modus operandi che ha contraddistinto, in vita, Antonio.
Il prossimo incontro sarà aperto a quanti - come già accaduto lo scorso anno per l'Anno Verriano e quest'anno nell'ultimo appuntamento organizzato da Fabio Tolledi ed Astràgali al Paisiello di Lecce - hanno a cuore il "destino autoriale" di Antonio.

***
Nel corso dell'incontro (di venerdì 14 febbraio), Massimo Melillo ha sottolineato la necessità di sondare la fattibilità di un sostegno istituzionale all'iniziativa attraverso il CUIS (Consorzio Universitario Interprovinciale Salentino). Ciò chiamerebbe in causa il Comune di Cursi (per il recupero e la piena valorizzazione del Fondo Pensionante de' Saraceni), il Comune di Caprarica (perchè ospiti l'iniziativa "Caprarica del Poeta"), il Comune di Lecce (contestualmente alle iniziative di Lecce 2019 Capitale Europea della Cultura sottolineando il carattere europeo e trans-europeo del "fare verriano")...

La prima necessità come più volte sottolinato in passato (e nel corso dell'incontro del 14 febbraio da Carlo Alberto Augieri) è quella di rendere accessibile la scrittura e i libri di Antonio Verri, favorendo la ripubblicazione dell'opera di Verri e la pubblicazione di inediti.
Nel caso ciò avvenisse, sarebbe opportuno, dare una linea unitaria alle pubblicazioni avendo cura di fornire al letture  (attraverso l'introduzione) le giuste chiavi di lettura dell'opera di Verri. In più - nel rispetto dell'autonomia editoriale di quanti vorrranno pubblicare - s'è pensato di indicare a corredo delle opere un segno identificativo per creare l'unitarietà di una collana fatta dalla diversità dei "tipi editoriali".

La seconda necessità sarà quella della promozione e della divulgazione dell'opera di Verri per andare ai lettori, perchè la comunità si ritrovi nel sentire e nel fare dell'autore... Sarà opportuno sostenere le iniziative editoriali con incontri, con la vendita dei libri e con il pieno coinvolgimento del mondo della scuola.

La terza fase sarà quella più propriamente scientifica per dar luogo al convegno di studi critici. Uno dei temi possibili potrebbe essere quello (indicato da C.A. Augieri) che vede Antonio L. Verri "come autore che ci mette di fronte alla crisi del linguaggio".

Avrò premura di comunicare a voi la data del prossimo incontro...
A presto e buone cose
Mauro


P.S. Quanti vorranno partecipare a questa nuova operatività possono comunicarmeno alla mail marinomauro7@gmail.com


giovedì 30 gennaio 2014

Antonio Verri e la cultura popolare

 
Antonio Verri con mamma Filomena e zia Grazia
Sergio Torsello*

Uno degli aspetti meno frequentati dagli studiosi che si sono occupati dell’opera di Antonio Verri è quello del rapporto dello scrittore con la cultura popolare. Una dimensione apparentemente marginale nella complessa e stratificata produzione verriana che però, a ben guardare, si rivela uno strumento essenziale per addentrarsi nel “proteiforme” laboratorio creativo dello scrittore. Ho cercato in altra sede di evidenziare come l’intera sua opera poetica, narrativa, giornalistica e quella parallela di intellettuale militante e di “promoter” dell’underground creativo locale, sia stata segnata da un legame mai reciso con la cultura popolare. Nei primi anni ’80 infatti fu proprio Verri a tenere acceso un dialogo con alcuni protagonisti del folk revival degli anni ’70 quando ormai la riscoperta delle forme espressive della cultura locale aveva ceduto il passo ad una malintesa idea di modernità che aveva “ esiliato nelle bettole – ha scritto il compianto Aldo Bello con una felice metafora – “i canti improvvisati dei carrettieri”.
Su Pensionante dei Saraceni e Caffè Greco, Verri ospitò i primi interventi di Luigi Chiriatti (un breve scritto sulle ultime rèpute del Salento e una importante intervista a Luigi Stifani, il barbiere violinista che fu l’interlocutore privilegiato di Ernesto de Martino nel corso della sua celebre indagine sul tarantismo salentino del 1959), l’appello di un gruppo di intellettuali di base (“Ritorno a San Rocco”) per la tutela e la rivitalizzazione della Festa di Torrepaduli e, nel 1985, l’articolo firmato a quattro mani da Luigi Chiriatti e George Lapassade sulla sessualità nella cultura popolare salentina. Qui, Verri si limita a offrire uno spazio di visibilità e di riflessione a un “movimento” per certi versi in crisi dopo la stagione aurea del folk revival e quella, intellettualmente ancor più sofisticata, dell’etnoteatro (ispirata alle teorie di Eugenio Barba). Si limita a registrare un fermento, un fuoco che cova sotto le ceneri, un flebile segnale di ripresa al quale offre una sponda, comunque una sensibilità e una attenzione niente affatto scontata in quegli anni. E non va dimenticato che nel 1983, per le edizioni del Pensionante, sarà sempre Verri a pubblicare Col tempo e con la paglia, una raccolta in “grico” del poeta contadino di Sternatia, Cesare De Santis, “cultore, tenace soldato e detentore” – scrive Verri nell’appassionata introduzione - “degli ultimi segni e segreti di una lingua e di una civiltà, la greco – salentina, in rapidissimo e totale disfacimento”. Nel 1986 esce invece quello che personalmente considero il testo più affascinante sul mondo popolare salentino che sia stato scritto da un poeta dal dopoguerra a oggi. Certo, c’è stato il Bodini della Luna (Uno l’ho visto io/camminare col capo in giù/ sul soffitto/ altri bevevano a un pozzo di scorpioni e di serpi/non senza gridi/ nel viola acido e sporco di una cappella/mentre fuori era il chiaro giorno/ steso così avanti/ come il Cristo del Mantegna) e c’è stato anche il Pagano dei Privilegi del povero (Come tarantati a capofitto/ scenderanno giù, verso la polla,/ d’ogni scienza possibile, più giù,/luminoso delitto/ a conoscere il segno in cui tracolla/la nostra schiavitù?..Come tarantolati, in ridde, in cori/ di ridondanti mimiche vedremo zampillare dal grembo dei graniti/ l’ombra che ci ristori? Oh gettiti, oh pietà! L’urto supremo/ schianta in eterni riti). Ma credetemi, al confronto questi sono semplici esercizi di stile. Niente di più. Il testo di Verri è destinato al catalogo della mostra “La cultura contadina”. Il titolo, un classico stilema verriano, è a dir poco depistante: La cultura dei Tao. Ho letto e riletto più volte questo scritto e ogni volta con sorpresa ho trovato tra le sue righe parole diverse, spunti per una nuova riflessione, un’altra occasione per mettere in discussione luoghi comuni consolidati, retoriche vuote, vecchi e nuovi “esotismi”. E’ un testo stracitato, ma solo per un passaggio di insolita, folgorante bellezza:
Cambia, cambierà di molto il volto della campagna, degli aggregati umani, di interi paesi. È cambiato dal dopoguerra ad oggi, cambierà ancora tra due, tre generazioni. E cambieranno naturalmente anche abitudini, modi di lavoro, rapporti…, ecco quello che non cambierà mai sarà l’idea del dialogo con la terra che l’uomo ha stabilito dai tempi, il grosso respiro, il sibilo lungo che si può udire solo di mattina, mirando nella vastità dei campi, con accanto sentinelle silenziose gli alberi d’argento.
Ma è solo uno dei passi più ispirati. Il resto, il prima e il dopo, è un continuo andirivieni tra memoria del passato e l’eterno presente della scrittura, tra mito e storia, realtà e finzione letteraria. L’incipit (quasi un omaggio leopardiano, ha ricordato Fabio Tolledi) è un bellissimo, intenso dialogo con la madre, collocato in un tempo imprecisato: l’inverno che tagliava le gambe, le tasche gonfie di fichi secchi, l’inverno tristissimo perchè a Febbraio era già finita la scorta della monda. Secondo Rossano Astremo La cultura dei Tao segna l’adesione di Verri al materno come modalità di rappresentare la “voglia di oltrepassare le forme chiuse della letteratura dei padri”. 
Ma c’è qualcosa che va al di là del puro dato letterario. “Tanto ho appreso, altrettanto mi è stato insegnato” scrive Verri. “Che per molti fiori di giardino esiste un corrispondente selvatico”, ho imparato ad apprezzare “poveri oggetti, situazioni le più umili, ma portate con tale dignità, che serenità buon senso e innamoramenti al limite del pianto, sono cose che io oggi, figlio di questa cultura, posso opporre a volte con tale incauta destrezza da rischiare di bruciare, con legna d’ulivo, il sibilo lungo di una cultura millenaria…”.
Poi si torna al racconto. All’immagine del padre, “nell’eterna sua magrezza, a capo chino, severo, somiglia un pìstico sognatore di lucchi, un tenero rabdomante di chissà quali sotterranei giacimenti… alle figlie sposate in altri paesi, alle fiere di paese, all’inverno dei pirichilli”… “La letteratura di questa gente magra, dalle mani callose, è fatta di fole e angiolese, di orchi benevoli, di tao che girano a mezz’aria, di spiritelli birichini, di fibule, di glimpe di penule di purissimi cavalieri che di notte riposano sui tetti bassi delle case bianche, o nelle corti, sotto la prèula, accanto al gelsomino, o in stàbule di campagna sopra lettiere di sarmenti, nella paglia”. Su tutto domina la mar (la madre) e la cultura dei tao. “Era stato un inverno tristissimo quello. L’inverno della calata dei tao. I tao ci sono sempre in un paese. I nostri paesi ne sono strapieni. Giocano, vorticano continuamente i tao in questa cultura, in queste contrade. A mezz’aria. Sono loro i regolatori di questa sposa, alle nenie, alle ballate ai contra dei trovieri di paese(…) loro che hanno inventato il cane dello Scialla che fece cento chilometri per un bicchiere di vino, la Peppa Landa che compra galline cadenti, il magico lumicino della Lucerna di Iacca, il Morso che fa ballare, i giorni della Vecchia, le acchiature in ogni angolo”… Vengono in mente le Lezioni americane di Calvino quando l’autore afferma: ”Se in un’epoca della mia attività letteraria sono stato attratto dai folktales, dai fairytales, non è stato per fedeltà a una tradizione etnica (dato che le mie radici sono in un’Italia del tutto moderna e cosmopolita) né per nostalgia delle letture infantili (… ) ma per interesse stilistico e strutturale, per l’economia, il ritmo, la logica essenziale con cui sono raccontate”. 
Non c’è nostalgia regressiva, nelle parole di Verri, e tantomeno il gusto “antiquario” per una vagheggiata età dell’oro o per i falsi miti dell’autenticità e dell’origine. “Dal Salento “occorre guardare altrove – dice Antonio Prete in una recente intervista – oppure occorre guardare nel cuore del Salento, saltando stereotipi, convenzioni, cogliendo un’anima non fissata in formulette, in rituali turistici. Occorre scavare dentro di sé e avere uno sguardo capace di evocare quel che non è offerto alla vista, al consumo degli occhi”. E in questo balzo in avanti la “tradizione” non è una palla al piede, ma un’opportunità per immaginare un futuro più ricco e creativo. In questo senso (ma non solo), Verri è stato un visionario precursore di quel “rinascimento salentino” che oggi si riverbera nella musica, nel cinema, nella letteratura, nelle arti in genere. Verri s’inventa persino parole nuove, tanto da accludere al testo un Dizionarietto dei termini magici, nuovi o non comuni. A scorrere questo immaginifico vocabolario del nulla, si scoprono parole “morte” richiamate in vita per l’occasione, altre che denotano una certa competenza demologica, (“Contra: canzoni da contrasto amoroso. Le sentiamo cantare ancora a Borgagne (Le) da due vecchie contadine”); altre ancora che sono pura invenzione. E si scopre che i “Tao sono folletti dell’aria: “c’è dentro il salentino mao, il veneto bao, tanto altro”. Come non pensare a Il Narratore di Benjamin, un memorabile saggio degli anni Trenta, che insiste sull’idea della narrazione orale, esperienzale, che appartiene alla cultura popolare, contrapposta al romanzo come espressione dell’epopea borghese. L’idea, di certo non estranea a Verri, che nelle culture tradizionali l’apprendimento e la trasmissione dei saperi passano attraverso lo sguardo, l’ascolto e la parola. Attraverso il potere “magico” dell’affabulazione tradizionale. La madre, verrebbe da dire, di tutte le narrazioni. 
Scrive Benjamin: “L’arte di narrare volge al tramonto perché viene meno il lato epico della verità, la saggezza (…) la narrazione è stata espulsa dall’ambito del discorso vivo e insieme fa percepire una nuova bellezza in ciò che svanisce”. Verri sembra quasi fargli eco: “Mi è stato insegnato – ma poi l’ho sperimentato da me – che vivendo, stando quanto più possibile lontano dal nulla, non si può fare a meno della saggezza e del piacere curioso dei proverbi, dei mille proverbi che dalla terra nascono, che i proverbi aprono al mondo, a variegate realtà, che niente c’è di tanto misterioso, di tanto affascinante, di tanto poetico, quanto un proverbio che si dipana al punto giusto, al posto giusto; che attraverso i proverbi è tanto magica, tanto plastica l’interpretazione del mondo che niente, nessuna cosa sulla terra, mi è parsa, mi pare così naturale, così saggia, così strapiena di candore...”. E viene da pensare, ancora, a Vincenzo Consolo che in una delle sue ultime interviste argomentava: ”Non c’è più la cultura popolare ci sono solo delle persone che cercano di continuare questa tradizione. E poi ci sono gli scrittori che lavorano sulla memoria, perché la scrittura senza memoria è una scrittura orizzontale, senza nessuna profondità”. Forse anche per questo la scrittura di Verri era una scrittura verticale, addirittura vertiginosa. Perché poggiava su radici solide e profonde. L’esatto contrario, insomma, di una scrittura orizzontale.

*da “Marsia” , Rivista di poesia – Anno III, N.1 Dicembre 2013. Numero speciale dal titolo Le pietre sopra le ali. Vent’anni senza Antonio Verri a cura di Salvatore Francesco Lattarulo, Progedit, 2013, pp.116, euro 15,00. Il fascicolo contiene contributi di Carlo Alberto Augieri, Fernando Bevilacqua, Rino Bizzarro, Nadia Cavalera, Cosimo Colazzo, Salvatore Colazzo, Stefano Donno, Antonio Errico, Vittore Fiore, Eugenio Imbriani, Salvatore Francesco Lattarulo, Mauro Marino, Maurizio Nocera, Fabio Tolledi

martedì 28 gennaio 2014

Al Caffè Greco

La copertina del numero del Caffè Greco riletto da Alessandra Peluso

“CAFFÈ GRECO”
FASCICOLO UNICO DI LETTERATURA, OTTOBRE, LECCE 1980.

Una rilettura di Alessandra Peluso

Ho un tesoro fra le mani, non  posso non lasciarlo parlare, gridare, la poesia militante, proletaria di Antonio Verri.
Il fascicolo unico di letteratura “Caffè Greco” curato da Antonio Verri ospita contributi di Rina Durante, Lucio Conversano, Pino Maggiore, Roberta Pappadà, Giuseppe Ianne. Nomi sconosciuti ai più, anche alla sottoscritta che legge e rilegge affascinata e incantata nei confronti di un passato che ha dato origini alla poesia salentina, al Sud quello di dolore, guerre, lotta di classe, sofferenza, aridità - un Sud che voleva a tutti i costi cambiare e farsi amare.
Il Sud - il nostro Sud -  deriso dimenticato non certo dalla penna di Antonio Verri.
Si rabbrividisce a leggere i passi del “Caffè Greco”, sembra che i versi parlino, che ogni parola abbia un eco che ancora oggi va ascoltato.
Scrive Rina Durante ai giovani del Caffè Greco, a noi giovani: «Della poesia ho un'idea ecologica: esiste la comunità (Melendugno o New York, non fa differenza), fatta di gente che zappa, che fabbrica, che compra, che vende, che fa poesia. Fare il poeta è un mestiere. Chi lo sa fare bene è un poeta collettivo. Fare il poeta, (ma anche lo scrittore), è faticoso, perché è una grande fatica trovare la verità di tutti, ma ancora di più dirla a tutti. In un mondo che sempre più rinuncia al proprio volto, che fa di tutto per mistificarsi che tende all'appiattimento e al livellamento universale fare il mestiere di poeta è sempre più difficile». Allora - siamo negli anni '80 come adesso negli anni del secondo millennio - la  cultura tende ad essere sempre di più livellata, sterile, strumentalizzata a fini utilitaristici dove l'unico scopo è quello del “divertissiment”, distrarre.
La poesia, la scrittura che tesse e ha tessuto la storia del Salento, del Sud è invece quella sofferta, vissuta, di lotta e conquista, di dolore verso una terra che alle volte sembrava indifferente alle grida di dolore.
Nonostante tutto c'è stato chi ha creduto nel potere della poesia, della conoscenza e aleggia fortunatamente sulle nostre teste, veglia sulle nefandezze, sulla nullità italiana.
Molti hanno creduto che essere poeti significava offrire versi per difendere il proletariato, i lavoratori, chi si sporcava le mani con la terra. Ed oggi a favore di chi o cosa si dovrebbe scrivere? Non esiste una politica, non esistono ideologie, non esistono coloro che difendono i diritti, i valori universali, la propria patria. O se ci sono non si vedono. Esistono però i poeti che scrivono la vita e cercano in qualche modo di dare speranza. «Come? Ora non conosci la conosci la vita neanche tu? … La tua composizione di sangue e di ossa è la pietra / focaia che non incendia più neanche ipoteticamente. / É cambiata la tua botte visualistica? / Hai compresso senza scoppio e l'aderenza / è pellurica». (Lucio Conversano).
Si leggono versi che parlano degli abitanti di un Sud emigrante, che descrivono la terra calda, l'odore buono del pane che brucia, l'aspro arancio dell'orto. «E guarda muto / nell'infinito / mare d'aria / alla ricerca / degli affetti / che non moriranno / mai. / E soffrendo non s'appaga / e vive / ricordi / lontani / sempre vicini / giustizia sociale / chiedendo / senza / pietà».
C'è la sperimentazione di fare poesia che appaia diversa nella forma con i dovuti spazi, i silenzi, ai quali solo il lettore ha il potere di dar forma, di darne un senso. (Pino Maggiore).
Ci sono molte altre voci nel fascicolo “Caffè greco” e c'è la bellezza disincantata di una nota di Antonio Verri scritta il 12 ottobre del 1980 che si scusa di certe imperfezioni, refusi o deficienze in sede di correzione di bozze. Che meraviglia!
Come si fa - mi chiedo - a dare retta alle imperfezioni, a tutte queste formalità descritte dal nostro Antonio quando - ammesso che ci siano - sono solo distrazioni che non possiamo permetterci di fronte a materia infuocata, a parole che parlano, ti arrivano, bruciano come magma incandescente, sono un senso contro il quale nessun errore ortografico ha valore e significato di esistere. Forse adesso si dà più retta alla forma perché la sostanza manca, e ciò che si vuole dire non ha forse un potere, un'energia così devastante da confondere e credere all'esserci, a ciò che è e non ciò che si vuole dimostrare tra orpelli e maschere varie.
La poesia è vita: necessità, esigenza, idee, sensazioni, emozioni ed è di questo che occorre parlare, di vita e viverla ognuno dando la propria testimonianza e il contributo perché tante morti di poeti (mi rivolgo anche alle donne) salentini e non, non siano state inutili. Perché le loro morti siano da monito per lottare con la penna, o con i propri strumenti a rinnovarsi o meglio a ritornare per fare una poesia militante che distrugga le ragnatele dell'ipocrisia e della menzogna, del perbenismo, che racconti la verità e che sia ascoltata perché cambiare si può, deve esserci la speranza non disillusa, ma sincera utile a dar forza e coraggio alla vita che - nonostante tutto - va vissuta.  

mercoledì 15 gennaio 2014

Omaggio al poeta del Declaro

Antonio Verri, di una certa letteratura militante
Al Teatro Paisello, giovedì 16 gennaio 2014, dalle 19.00

Partecipano: Francesco Aprile, Rossano Astremo, Aldo Augieri, Carlo Alberto Augieri, Fernando Bevilacqua, Salvatore Colazzo, Aldo D'Antico, Rocco De Santis, Stefano Donno, Antonio Errico, Simone Franco, Simone Giorgino, Francesco Salvatore Lattarulo, Mauro Marino, Maurizio Nocera, Luciano Pagano, Piero Rapanà, Fabio Tolledi e...


Antonio Verri al telefono in una fotografia di Fernando Bevilacqua
…Se qualcosa di tutto questo ti accadesse/ o se qualcuno ti parlasse di un modo che ormai/ gira sul niente, ti prego, stringi i pugni/ mangiati il cuore parla delle ragazze di crema/dei loro fiori in petto, delle melodie di velluto/dei bazar in piazza a Martano/ caccia le unghie e fai capire che volevamo/ fare della poesia di lotta/…/oppure di soltanto che non è da tutti rubare al cielo/i suoi segreti. Non dovercene spiegare le ragioni
Sono parole di Antonio Verri, poeta, scrittore, operatore culturale, scomparso drammaticamente
nel maggio del ’93.
E Antonio Verri, di un certo sguardo sulla letteratura militante è il titolo della serata che Astragali Teatro in collaborazione con il Fondo Verri propone il 16 di gennaio, Teatro Paisiello, ore 19, all’interno del suo progetto di Residenza Artistica Teatri Abitati, sostenuta da Regione Puglia, Teatro Pubblico Pugliese e Comune di Lecce.
Fabio Tolledi, regista e direttore artistico di Astràgali Teatro, insieme a Mauro Marino, artista visuale, promotore del Fondo Verri, e a quanti hanno conosciuto, amato, e studiato lo scrittore, tracceranno il profilo di Antonio Verri, poeta, autore complesso, operatore culturale che con la sua militanza poetica ha costruito una rete di scambi, di incontri, che dal Salento portavano all’Europa. Antonio Verri, e il Declaro, libro infinito, i suoi progetti di rivista, le sue relazioni con poeti e scrittori europei, è riuscito, insieme a quella “stupenda generazione”, ad “abbattere i muretti a secco” e a sottolineare l’importanza dell’impegno nella letteratura e nella vita culturale.
La domanda che muove della sua esperienza è tuttora urgente: cosa significa fare cultura in questo territorio e con quale proiezione? E, ancora, quale il ruolo del poeta oggi?
Difficili da disgiungere dalle sue azioni, i suoi testi verranno letti durante la serata, in un intreccio di memorie e parole, di racconti di vita spesa insieme e quegli azzardi di cui la sua scrittura si nutriva.

sabato 11 gennaio 2014

Antonio Verri per Franco Corlianò per una mostra del 1983

Il pieghevole che presenta la mostra

La nota di Antonio Verri

Una facciata del pieghevole con il luogo e la data della mostra

Da Franco Corlianò a Verriana

"Certo di farti piacere, ti invio questa presentazione che Antonio Verri (mio caro compagno di banco nella Scuola Media) scrisse per una mia mostra di pittuta dei primi anni '80. Ti saluto"

N.B. Per meglio leggere i documenti cliccare sopra per ingrandire