mercoledì 16 ottobre 2013

Il libro di Simone Giorgino su Antonio Verri

Su “Nuovo Quotidiano di Puglia”, 16 ottobre 2013

VERRI, L’UOMO CHE DANZAVA CON LE PAROLE
di Antonio ERRICO

L’opera di uno scrittore appartiene a tutti. L’uomo che ha scritto l’opera, invece, no. Per cui, quando l’uomo che ha scritto l’opera non vive più, appartiene esattamente a chi è appartenuto quando viveva. Non a chiunque.
Nei vent’anni che sono passati dalla morte di Antonio Verri, molti si sono dati licenza di entrare nella vita della persona, spesso tessendo un’aneddotica che, se non era falsa, non aveva comunque alcuna rilevanza. Peraltro talune volte della sua opera non avevano letto neppure mezza riga.  Ma si può in qualche modo giustificare il fatto, considerando che il destino dei giganti è quello di ritrovarsi i nani sulle spalle.
In questi giorni, però, Simone Giorgino ha pubblicato con Lupo editore, un saggio serio, accurato, approfondito, intitolato “Antonio L. Verri. Il mondo dentro un libro”. Un’analisi dell’opera metodologicamente coerente, una bibliografia di e su Antonio Verri precisa, una contestualizzazione dell’opera con i rimandi essenziali, l’individuazione di quelli che sono stati i riferimenti letterari e i modelli stilistici, le finalità, i caratteri e gli esiti della sua sperimentazione. Oltretutto, l’attendibilità del saggio di Giorgino è  testimoniata dalla sua provenienza da una tesi di laurea di cui è stato relatore Antonio Lucio Giannone.
Giorgino rileva come per Verri il linguaggio sia autonomo rispetto al mondo esterno. Tutto si genera, si sviluppa e si consuma e poi si rigenera, si trasforma e si dissolve ancora, all’interno dell’universo testuale. Verri non vuole narrare l’accaduto; vuole creare un mondo “ altro”, e del mondo reale lo attrae non il fenomeno ma la parola che dice il fenomeno. Anche l’elemento autobiografico, di cui comunque è tramata l’opera, a volte sia pure soltanto come memoria di suggestioni, svolge la funzione di un pretesto o di un impulso quasi involontario. E’ un po’ quello che  Lewis Carroll fa dire al suo Humpty Dumpty: quando uso una parola, essa vuol dire esattamente quello che decido io, né più né meno. 
Diceva Antonio Verri che la letteratura è un demone che si nutre di suoni, impensabili giochi verbali, metafore, analogie, frantumazioni di senso.
Ecco. Lui ha ha dato  forma a questa idea, operando costantemente uno scarto sia dalla comune grammatica della visione, sia dalle modalità strutturate di espressione.
Ho avuto il privilegio di leggere i libri di Antonio Verri prima che venissero pubblicati, e di volta in volta mi rendevo conto che la scrittura era sempre più governata  da una logica interna, rispondeva soltanto ai movimenti e agli impulsi ritmici, fonetici, fonosimbolici, che erano le parole a portare il pensiero e non il pensiero a determinare le parole. Come ogni grande scrittore, Verri era convinto che le storie non esistessero già ma che venissero generate da voci che venivano  da molto lontano e da profondità sconosciute. Allora lui cercava di ascoltare quelle voci, di decifrarne a volte l’allegria e a volte il dolore, a volte la rabbia e a volte la malinconia, a volte la felicità e a volte la disperazione.
Cercava di attribuire un ordine testuale alle schegge di senso, alla frammentarietà, di arginare con muraglie di parole la dissoluzione alla quale sono destinate le creature, di salvarle dall’oblio attraverso una rigenerazione quasi magica.
Perché la scrittura per Antonio Verri era come una magia. Anche se sapeva – sapeva perfettamente – che poi, alla fine del conto, alla fine del gioco, non restano altro che quaderni, uno stupore, il carico di stremate, sfibrate parole.

(In) a Sud del Sud dei Santi

ANTONIO VERRI
di Antonio Errico

Riprendo i libri di Antonio Verri come se stessi entrando in una casa che non frequento più da tempo: con la stessa malinconica memoria delle atmosfere, con la percezione dolceamara dei particolari, con la stessa sensazione di rivedere creature care che l’hanno abbandonata per andarsene in luoghi che non hanno pareti.
Non li leggevo più da quando ho scritto delle pagine su di lui in Angeli regolari e in Salento con scritture, pubblicati da Guitar nel 2002 e nel 2005.
Non li ho letti più forse perché  scrivendone ho fatto confusione tra l’esistenza e la scrittura, non per un errore di metodo ma perché nella scrittura di Verri quella confusione è connaturata. Chi volesse confrontarsi con l’opera tentando di mettere ordine in quella confusione, di separare le due sfere, potrebbe pure farlo, certamente, ma a condizione di smembrare un corpo, di lacerarlo, fino al punto da non riconoscerlo e correndo  dunque il rischio di sbagliare a identificarlo.
Leggevo i suoi libri e lo rivedevo, e rivederlo mi provocava nostalgia, e non volevo avere  nostalgia. Così non li ho letti più.
Adesso li riprendo dagli scaffali. Stanno accanto a quelli di Salvatore Toma. E’ giusto che i libri di chi si è fatto compagnia si tengano compagnia. Li rimetterò accanto.
Appena prendo il primo, mi ritrovo nella stessa confusione: le vite e le parole che fanno nodi difficili da sciogliere.
Il pane sotto la neve uscì nell’ottobre dell’Ottantatrè, secondo volume dei “Quaderni”  del Pensionante de’Saraceni. Il primo era stato Forse ci siamo di Salvatore Toma. 
Ma che cosa fu Pensionante de’ Saraceni bisogna dirlo. Uscì che  era il febbraio dell’Ottantadue. Noi lo si vendeva a cento lire – ma anche di meno, ma anche di più- per le strade di Lecce,  nelle stanze chiuse dell’università, nei vicoli stretti, tra i tavoli delle osterie. Furono pochi gli entusiasmi, in verità, per quella rivista di colore giallo ( talvolta era un giallo rossiccio, un colore di foglia marcia, qualche altra volta bianco) che avrebbe cambiato non solo il modo di fare militanza ( come si diceva) letteraria ma anche il modo di pensare ad un pubblico per la poesia, possibilmente diverso, più vasto, nuovo.
Qui: in Salento. Provincia della provincia. Finibusterrae.
“Pensionante” era figlio di un padre che visse poco ma che fu importante: “Caffè Greco”; e di una madre dall’esistenza antica, che ancora vive, che vivrà per molto: è un’idea, un profilo di nuvola bianca, oppure una zolla di terra che impasta Mediterraneo ed Europa, che coniuga la grotta di Badisco con il volo di Fra’ Giuseppe Desa da Copertino.
Chi c’era.
All’inizio la redazione di “Pensionante” fu nella soffitta di Angelo Fabbiano Via Sicilia, 17. Lecce.
( Da anni non vedo e non sento Angelo Fabbiano. L’ultima volta camminava con le mani e a gambe in aria per far smettere di piagnucolare una bambina).
Poi si trasferì nella casa di Piero Manni, sul viale Leopardi.
Dunque: chi c’era. Un indice dei nomi sarebbe troppo lungo; poi rischierei di dimenticare qualcuno. Io non voglio dimenticare nessuno. Niente nomi. Ma erano in tanti; eravamo in tanti. Si correva lungo una strada indicata da quel vecchio padre che  mandò una lettera in forma di poesia  intitolata “Ai neoteroi del Pensionante”: Vittore Fiore.
Diceva Vittore: “Entrate nella scena/ con una nuova poesia, velame/ che non ci rinchiuda nel giro/ che più non restituisce contadini,/ gerani, donne di tabacco, astrologiche specchie, i suoni/ nelle grotte e quelle paure/ cariche di profezie, prima/ che una prigione di clacson, di cemento,/ frantumi l’orecchino incandescente,/ e impazziscano i profeti,i rancorosi,/ proconsoli, i giustizieri,/ e la scrittura sia un corpo sfatto”.
“ Pensionante” ospitava firme con un futuro alle spalle e voci con un passato tutto da costruire, verso dopo verso, parola su parola.
Tutti quelli che c’erano ci credevano; tutti quelli che c’erano sono rimasti. Perché quel che conta nel mestiere della scrittura è credere e resistere.Quel che conta è spendersi, giorno per giorno. Anche disperdersi conta. Anche dissiparsi. Come il vecchio clown che resiste alle trasformazioni del circo e del pubblico del circo, tenendosi dentro il sogno segreto d’incantare i bambini. Molti giochi e giocolieri passano negli anni; lui resiste con il suo numero che ogni sera ripete ai bambini nuovi e ai vecchi bambini.
L’ultimo numero di “Pensionante” col formato del foglio esce nell’estate dell’Ottantaquattro.
Chiude per stanchezza.
Poi. Non era più estate ma faceva caldo, forse perché era caldo l’autunno, forse per il vino, l’anno era lo stesso ottantaquattro quando nella casa di Maglie di Aldo De Jaco il foglio di “ Pensionante” si trasformò in rivista pensata da una redazione rovesciata sul divano.
Esce nel gennaio dell’ottantacinque. Centosessantasette pagine. Diecimila lire. In copertina Pasolini a Calimera.
A Rina Durante ( a quella ragazzina che si svegliava di soprassalto con l’incubo che gli altri intorno a lei stessero scrivendo il capolavoro, e che poi il capolavoro lo scrisse davvero, lo pensò e lo scrisse in una corsia d’ospedale mentre sua madre moriva), a Rina Durante  che gli chiede di riflettere su quella rivista da due chili, Antonio Verri risponde che non ha programmi, non ha proponimenti per questo nuovo “Pensionante”. Scrive che ha solo vuoti, solo amarezze, sbandamenti, il candore di sempre, che non riesce a vivere in modo regolare, con le Pasque e i Natali al posto giusto. Dice che se proprio deve riflettere, allora capisce che per essere buon direttore di una rivista di letteratura, qui da noi, bisogna essere amico dei Turchi: di quei Turchi che vennero per darci la possibilità di trasformare Otranto in un mito.
Di “ Pensionante” rivista escono quattro numeri: uno straordinario su Vittorio Pagano. L’ultimo.
Nel dicembre dell’ottantasei, Verri esce con un numero di “Pensionante” come “Corriere internazionale”.
Da Maglie Totò Toma gli scrive: “ Caro Verri, Belloooo! il tuo Corriere (levriere) internazionale! (…) Le traduzioni da lingue straniere sono così chiare … che io l’ho letto tutto  in sei minuti e 40 secondi!”.
Con questo numero l’esperienza di “ Pensionante” si conclude. Ma Antonio Verri aveva creato intorno alla rivista un Centro culturale con lo stesso nome, una rete incredibile di rapporti nazionali ed internazionali, aveva gettato solide basi per il dopopensionante.
Con il Centro Culturale e con le edizioni del Dopopensionante uscirono i “Quaderni”, “Diaepositive. Scritture per gli schermi”, “Mail Fiction”; “Abitudini. Cartelle d’autore”, “Spagine”, “Compact Type”, “I Mascheroni” (con le edizioni Erreci) Ballyoo-letterature (una simulazione del Declaro, del libro impossibile, infinito, sconfinato) raccolto, impaginato sopra un grande tavolo ad Astragali.
Chi c’era. (Niente nomi. Potrei dimenticare qualcuno. Sto procedendo a memoria. Rinuncio a mettere mani nel groviglio di carte accumulate. Mi vengono molte parentesi.)
Da “Pensionante” nacquero altri giornali: “On Board”, “Titivillus”, e quell’avventura favolosa che fu “Quotidiano dei Poeti”:
Uscì per dodici giorni, distribuito nelle città italiane più importanti. Non sembrava vero allora; non sembra vero ora.
Dodici giorni di fila: dal 17 al 30 di maggio del novantuno.
Ventun’ anni fa. Nel secolo scorso; appena ieri.
Chi c’era.
Non c’era più Salvatore Toma. C’era Antonio Verri.

Nel Pane sotto la neve c’è l’idea della scrittura e  il lievito di tutto quello che Verri scriverà dopo.
C’è l’idea che ogni parola è adorabile: anche quella sciocca, anche quella usata, abusata, consunta.   C’è l’idea che tutto sia un miracolo. C’è il mito della  madre, quello di Otranto e dei  turchi, le ragazze mulacchione, la terra, la rabbia, il candore, le maschere, le figure allucinate.
C’è Stefan, un alter ego che proviene dall’universo joyciano.
C’è la combinazione di versi e di prosa, quella prosa che impasta Joyce con Vincenzo Consolo e Stefano D’Arrigo.
C’è quella ideologia della rivolta operata attraverso la poesia. Fate fogli di poesia, dice, spediteli ai politici, gabellieri d’allegria, a chi ha perso l’aria di studente spaesato, a chi ha svenduto lo stupore di un tempo, le ribalte del non previsto, ai sindacalisti, ai capitani d’industria, ai capitani di qualcosa.
Insultate il damerino, dice, l’accademico borioso, osteggiate i burocrati, i falsi meridionalisti.
Non alzatevi in piedi per nessuno, poeti.
Così dice. 
Poi ritorna alla poesia di una dolcezza sfarinata, nell’abisso dell’intimità, nel buio impenetrabile e irrimediabile in cui nascono le parole. Poi ritorna nell’ambito della relazione con se stesso e  con le creature dell’origine, e con se stesso e con quelle creature riflette sulla natura e sul senso dell’essere poeta, del fare poesia.
Allora dice: “ho potuto darti poco, madre/popo poco/ un sorriso di rivalsa/le risposte il tacicuore:/  mi chiedi a che serve poesia/ (parole stupide, madre, ma sonore/ di quelle che dilizian dint’oricla:/ poi tutto si consuma/poi tutto t’ossessiona,/ il pallore degli anni di livore/ il tempo che non basta…)/
Mi chiedi a che serve poesia/ non ti preoccupare, aggiusto tutto/ avrò senso/dormirai la notte,/da oggi, vedrai, calibro la rabbia/ le verdi stonature/ i guerci miei violini, i miei progetti:/ lascerò le alchimie, se vuoi/ i segni i sogni zoppi/ i percorsi di miglio profumato:/credimi, da oggi tesso i colpi/ che do al vuoto/ da oggi cambio/ da oggi non m’importerà/ del tremore del treno che mi assale/ di questa ossessione che è la vita/ avrò più tempo, starò tranquillo/ riprendo a stare contento a casa tua/ ( mi lavo fuori, madre/ dal grosso rubinetto sulla scala/ lo specchio è ancora là…/ è buona barba adesso/ il pelo chiaro del ragazzo/ che sospettava la scrittura il racconto/ il goffo, l’assoluto della vita/ il morso senza dolore dell’incanto)”.
Ho sempre pensato che il fondo e il fondiglio, la ragione e il sentimento, l’incipit e l’explicit   della poesia di Antonio Verri, si trovassero proprio in questi versi, usciti su “L’immaginazione” nel gennaio dell’Ottantaquattro.


Dopo Il pane sotto la neve, Verri pubblica Il fabbricante di armonia, La betissa, I trofei della città di Guisnes. Tutti testi di prosa, se si deve rispondere alla convenzione dei generi. Anche Bucherer l’orologiaio, uscito postumo a cura di Aldo Bello e di chi scrive queste righe, è un testo in prosa.
Ma è una prosa che rifiuta ogni convenzione di trama, d’intreccio, di stile, di forma, di linguaggio, per caricarsi di un ardire e di un ardore, e di un furore talvolta, che rispondono all’ansia di ricerca del Declaro, del libro dei libri, assoluto, metafisico. Impossibile. Ecco: la scrittura del libro impossibile, per Verri è l’unica scrittura possibile mentre all’orizzonte si delinea il panorama del terzo millennio.
La poesia ricompare nell’ultimo libro pubblicato in vita, Il naviglio innocente: testo composito che alterna i versi e la prosa, tramato da metalinguaggio, metapoesia.
C’è una nave. Probabilmente una proiezione de Le bateau ivre rimbaudiano. Oggetto, forma poetica, che naviga nel vuoto, nella dissolvenza dei generi, senza convenzioni.
C’è una nave. Forma inutile, vuota, muta. E’ la continua voce degli amici morti.
C’è quello che c’è sempre stato in ogni pensiero, in ogni pagina. C’è Stefan, ancora. La madre, ancora. La felicità e l’angoscia della poesia. Ancora.
“O scialba scialba poesia, guasto poema/ versi unici e inutili, non barbari/ mia madre non dormiva, mi chiedeva/io continuavo carico di neve: / è dolcissimo tornare, madre/ sai quanti ori venduti e in quanti posti/ e ragazze ondeggianti  e stazioni e grandi gruppi/ e quanti lunghi fiumi…/ Figlio  ricominci?”.
C’è una nave. Corpo sonoro, mnemonico, numerico. Forma vandalica, superflua, innocua, “ travolta da un carico di confettate parole”. Essa è il racconto, il corpo, l’evento teatrale, “ può pulsare e narrare o sdegnarsi/ oppure crescere tonda come un tempo/ le grandi comete/ oppure greve e muta procedere/ minuscola e vile…”.
C’è un viaggio in questo libro.

C’è sempre un viaggio in ogni libro di Verri. Movimenti in verticale, di discesa, di sprofondamento. Scandaglio del senso: del fondo del senso. Il senso sta nell’origine: della terra, di sé, delle storie.
Sta in ogni poesia, in ogni parola di una poesia, in ogni sillaba di ogni parola. Nel ritmo di un verso, nel suo fiato, nel suo respiro.  Nella riflessione – dolorosa-  che l’indicibile non si può dire, con nessuna forma, nessuna metafora. Che per l’indicibile non c’è lingua o c’è solo quella in cui parlano le cose mute, come dice Hugo von Hofmannsthal  nella Lettera di Lord Chandos.
Come ogni grande poeta, Verri sfida parola per parola la condizione dell’indicibilità con la coscienza disperata dell’insensatezza di  quella sfida. Ma non può fare che questo. Anche se sa che alla fine restano solo i quaderni, lo stupore, il carico di svuotate,  stremate, sfibrate parole.
C’è un viaggio in ogni libro di Verri. O piuttosto un correre continuo, con ali bianche, quasi senza volto, verso il solito albero d’oro, verso il solito vecchio profumato eldorado.

C’è chi dice che chiunque scriva una volta qualcosa, sia condannato a scrivere e riscrivere sempre quella stessa cosa. Probabilmente è vero. Come sono le prime conoscenze e le prime esperienze a conformare e a dare senso a tutta  un’ esistenza perché su di esse si innestano le conoscenze e le esperienze che vengono dopo, ad esse si rapportano e con esse si confrontano, allo stesso modo sono le prime esperienze di scrittura che aprono i varchi per le scritture successive.
Per Verri è stato così. Lui ha scritto e riscritto sempre Il pane sotto la neve. Si era lasciato – sapientemente- molte cose da dire: storie da continuare ( e da non concludere mai), personaggi da far crescere.
Ecco, appunto. Verri ha fatto crescere Il pane. Al modo – allo stesso identico modo – in cui si fa crescere un figlio. Ne ha raccontato quella crescita.
Ci sono libri che sono un destino. Non si pensano, non si cercano. Accadono, e dal momento in cui accadono non si può fare a meno di tenerseli, non si può fare a meno di rispondere ad essi , come si risponde al destino. 
Per tutto il tempo che ha scritto, per ogni parola che ha scritto, ha risposto al richiamo o al comando di quel libro. Tutto quello che ha scritto è stato un tentare di dare delle risposte alle domande che si era fatto in quel libro. Gli era rimasto nel sangue, anche quando in certe sue sperimentazioni sembrava che si fosse allontanato, come rimane nel sangue un figlio anche quando ce ne allontaniamo o si allontana.
In fondo ogni cosa dipende dal principio. Anche la scrittura dipende dal principio.
Alla principio della poesia di Antonio Verri c’è uno stupore. Alla fine c’è quello stesso stupore. In principio c’è innocenza e furore. Alla fine la stessa innocenza, lo stesso furore. Una sola cosa non c’era in principio e che alla fine si rivela, dopo essersi insinuata subdolamente: la paura del silenzio.
Verri alla fine aveva paura del silenzio che covano le parole.  

Sono rientrato nei libri di Antonio come se stessi rientrando in una casa degli affetti. Di tanto in tanto ho dovuto sforzarmi per trattenere la commozione.
Succede.


Nota Bibliografica ( con qualche appunto).
In vent’anni su Antonio Verri si è scritto molto. Qualche volta anche a sproposito, marcando i tratti  dell’autore e trascurando la squisita qualità dell’opera. E’ successa la stessa cosa con Salvatore Toma: strane coincidenze annodano a volte la vita e la morte degli amici.
Qui faccio soltanto alcuni riferimenti. Probabilmente dimentico qualcuno e me ne scuso con la certezza che non avrà dubbi sull’innocenza della dimenticanza.
Antonio Verri. Fabbricante di armonia, a cura di Fernando Bevilacqua, Luigi Chiriatti, Maurizio Nocera, Istituto Diego Carpitella, 1998.  
Il mondo dentro un libro, tesi di laurea di Simone Giorgino.
(Entrambi i testi contengono una preziosa bibliografia di e su Antonio Verri. )

Un saggio di Nicola Carducci, “Le audacie espressionistico- sperimentali di Antonio Verri”, in “Apulia”, giugno 1997; poi in Scrittori salentini tra coscienza del passato e letteratura, Pensa, Cavallino, 2005, pp. 339-353.
Antonio L. Giannone, L’attività letteraria nel Salento, in Ettore Catalano ( a cura di) , La saggezza della letteratura, Ed. Giuseppe Laterza,  Bari, 2005.
Rossano Astremo, Antonio Verri: Postmodern / Postmortem, in Musicaos.it; a cura  dello stesso, Omaggio ad Antonio Verri, Vertigine, Pensa, 2006.
Paolo Vincenti, “Per non dimenticare Antonio Verri” in  Di Parabita e di Parabitani, Il laboratorio, Parabita, 2008.
Fabio Moliterni, Il vero che è passato, Milella, Lecce, 2011, pp. 370-372
Da segnalare l’attività culturale del Fondo Verri, che significa Mauro Marino e Piero Rapanà: hanno idealmente continuato nell’opera di militanza,  aggregazione, di fare insieme, che ha connotato il lavoro di Verri.
Nello stesso contesto si colloca il contributo di Fabio Tolledi e di Astragali.
Da tenere in conto gli interventi di Aldo Bello e Salvatore Colazzo, Ennio Bonea e Donato Valli,  di cui si trovano i riferimenti nei volumi citati contenenti la bibliografia. 
Intenso e costante è stato  l’interesse di Maurizio Nocera per la figura e l’opera di Verri, tanto che è difficile selezionarne gli interventi. Ma per chiunque voglia interessarsi di Verri, i lavori di Nocera risultano fondamentali.
Non si inserisce nella bibliografia una fonte orale, ma se si potesse si dovrebbe citare Fernando Bevilacqua per il lavoro appassionato di diffusione dell’opera di Verri, per l’appassionato opporsi all’offuscamento della sua memoria.  



ANTONIO ERRICO è nato in provincia di Lecce dove vive e lavora come dirigente scolastico di un liceo.  Ha pubblicato libri di narrativa e di saggistica: Tra il meraviglioso e il quotidiano ; Favolerie ; Il racconto infinito. Saggio su Luigi Malerba ; Fabbricanti di sapere. Metodi e miti dell’arte di insegnare ; Angeli regolari ; L’ultima caccia di Federico Re ; Salento con scritture ; Viaggio a Finibusterrae;  Stralune ; Le ragioni della passione. Approdi e avventure del sapere; L’esiliato dei Pazzi;  saggi e racconti in volumi collettivi.  Ha curato l’antologia Poeti a Finibusterrae , edito dalla Provincia di Lecce, e la riedizione di Secoli fra gli ulivi di Fernando Manno .
Collabora a quotidiani e periodici, a riviste letterarie e scolastiche. 


lunedì 14 ottobre 2013

Aldo De Jaco e Antonio Verri, un dialogo

De Jaco in un disegno di Santa Scioscio



 a cura di Maurizio Nocera
«Sta nelle nuvole il nostro mestiere
e aspetta come un figlio
d’essere partorito»
(Aldo De Jaco)

Aldo De Jaco in una fotografia di Claudio Longo

Aldo De Jaco (Maglie, 23 gennaio 1923 – Roma, 13 novembre 2003). Figlio di ferroviere, per questo amava i treni e le stazioni ferroviarie. Nel 1942, si iscrisse ad Architettura a Napoli, ma non si laureò mai. Nel 1944, inizia la sua attività di giornalista presso il quotidiano napoletano «La Voce». Visse a Napoli fino al 1963, poi a Roma, sempre militando nel Pci e, per questa sua attività politica, fu più volte rinchiuso in carcere (una prima volta a Napoli, ed una seconda volta (1967) ad Atene, durante la dittatura dei colonnelli, perché manifestava per la libertà degli scrittori antifascisti e democratici greci.
De Jaco esercitò la sua attività  professionale di giornalista presso «L’Unità», «Paese Sera» e fu corrispondente e inviato per «il Contemporaneo», «Rinascita», «Prove», «Le ragioni Narrative», «Cronache Meridionali», «La Battana». Scrisse anche su molti altri giornali nazionali e salentini. Per alcuni decenni fu Segretario generale del Sindacato Nazionale Scrittori. Ha scritto libri di storia, di narrativa, di poesia, molti dei quali tradotti anche in Germania, Urss, Bielorussia, Grecia, Bulgaria, Romania, Cecoslovacchia e Cina. Ha scritto la sceneggiatura del film Quant'é bello lu murire acciso di Ennio Lorenzini e, per la Rai Radio Uno, collaborò alle venti puntate di Voci e volti della questione meridionale. Per la televisione, la Rai ha trasmesso Opere Teatrali con il titolo Nella città di mezzo, opera in due tempi. Del libro di De Jaco La città insorge: le quattro giornate di Napoli, del 1956, il regista Nanni Loy si ispirò per il suo film Le quattro giornate di Napoli (1962).

Opere
Racconto del Sud, Edizioni Sud, 1946 (non distribuito).
Le domeniche di Napoli, Einaudi, Torino 1954. Premio Salento (opera prima).
La città insorge : le quattro giornate di Napoli, Editori Riuniti, Roma 1956.
Una settimana eccezionale, Mondadori, Milano 1959. Premio Settembrini (Mestre).
Viaggio di ritorno, Einaudi, Torino 1966. Premio Castellamare.
Il brigantaggio meridionale: cronaca inedita dell'Unità d'Italia, Editori Riuniti, Roma 1969. Riedito nel 2005 da Editori Riuniti.
Colonnelli e resistenza in Grecia, Editori Riuniti, Roma 1970.
Antistoria di Roma capitale : cronaca inedita dell'Unità d'Italia, Editori Riuniti, Roma 1970.
Gli anarchici: cronaca inedita dell'Unità d'Italia, Editori Riuniti, Roma 1971 (Riedito nel 2006 da Editori Riuniti)
Di mal d'Africa si muore : cronaca inedita dell'Unità d'Italia, Editori Riuniti, Roma 1972.
Inchiesta su un comune meridionale : Castelvolturno, Editori Riuniti, Roma 1972.
I socialisti : cronaca inedita dell'Unità d'Italia, Editori Riuniti, Roma 1974.
Con finale in prigione, Marsilio, Venezia 1975.
Vocazione agit prop, Marsilio, Venezia 1975. Premio Calabria.
Diario tre esse 1975-76. Con testi di Aldo De Jaco. Società editrice unitaria sindacale, 1975.
I giorni della libertà : diario di tutti, 1943-1947. Editrice sindacale italiana, 1076.
Ieri oggi domani la cooperazione. Editrice Cooperativa, 1979.
Diario di un ospite ingrato, Editrice Ciminiera, 1981.
Napoli monarchica,milionaria,repubblicana, Newton Compton Editore, Roma 1982.
Nel giardino del cattivo amministratore. Levante, Roma 1983.
Nica libre : ovvero visita a una giovane rivoluzione. Il Ventaglio, Roma 1984.
I cinque anni che cambiarono l'Italia. Diario fotografico di noi tutti : 1943-1947, Newton Compton Editori, Roma 1985. Premio Fregene e Premio Presidenza del Consiglio.
Stazioni di posta. Edizioni Il Laboratorio, Parabita 1986. Premio Napoli.
La casa di tufo. Erreci edizioni, Maglie 1986.
Opere teatrali : il ciclo dello "Scialle nero" e il ciclo de "Il grande vecchio". Todariana editrice, 1989.
Dodici lettere da Varna. JN editore,  1990.
Il tappeto persiano. Erreci edizioni, Maglie 1992.
La città insorge : le quattro giornate di Napoli. Monteleone, Roma 1995.
In viaggio con Prodi, (A.De Jaco - M.Nardi). Monteleone, Roma 1996.
Napoli, settembre 1943. Dal fascismo alla Repubblica. Vittorio Pironti Editore, Napoli 1998.
Briganti e piemontesi : alle origini della questione meridionale. Rocco Curto Editore, 1998.
Fine di un gappista : Giorgio Formiggini e lo stalinismo partenopeo, Marsilio, Venezia 1999.
Un po' di Napoli in tre racconti. Vittorio Pironti Editore, Napoli 1999.
1943. La Resistenza al Sud. Cronaca per testimonianze. Argo, Lecce 2000.
Nc'era na fiata na muscia nchiata. Edizioni dell'U.N.S.
La valigia di cartone. Viaggio (negli anni '60) nell'Europa degli emigrati. Bleve, Tricase 2000.
Dopo Teano. Storie d'amore e di briganti. Lacaita, Manduria 2001.
Lungo viaggio di ritorno, Manni editore, Lecce 2002.
C'era una volta - poesia come memoria, Kurumuny, Calimera 2004.

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ALDO DE JACO E ANTONIO L. VERRI UN’AMICIZIA FONDATA SUI LIBRI
Maurizio Nocera

Aldo De Jaco (Maglie 1923 - Roma 2003) e Antonio L. Verri (Caprarica di Lecce 1949-1993) si conobbero nell’ambito delle attività del Sindacato Nazionale Scrittori, di cui presidente era il giornalista magliese, all’epoca corrispondente di «Cronache Meridionali», «l’Unità», «Vie Nuove», «Rinascita», «Produzione & Cultura», e contemporaneamente anche scrittore di alcuni tra i libri più belli scritti su e intorno al Mezzogiorno d’Italia, tra cui Racconto del Sud (Napoli 1946); La città insorge/ Le quattro giornate di Napoli (Roma 1956, Vibo Valentia 1995); Gli anarchici (Roma 1971); Antistoria dell’Italia unita/ Il brigantaggio meridionale (Roma 1980); La casa di tufo (Maglie 1985); Stazioni di posta. Poesie (Parabita 1986); Il tappeto persiano (Maglie 1992); La Resistenza nel Sud (Lecce 2000); Lungo viaggio di ritorno (Lecce 2002); C’era una volta. Poesia come memoria (Calimera 2003).
Oltre cinquanta sono stati i libri pubblicati da Aldo De Jaco a partire dai famosi “Gettoni Einaudi” scelti da Elio Vittorini e Italo Calvino. Per lungo tempo fu presidente del Sindacato nazionale scrittori (Sns). 
Quando Antonio L. Verri conobbe per la prima volta Aldo De Jaco, aveva scritto già alcuni dei suoi libri più importanti, altri li stava scrivendo, tra questi: Il pane sotto la neve (per Otranto, per occasioni) (1983); Il fabbricante di armonia Antonio Galateo (1985); La cultura dei Tao (1986); La Betissa. Storia composita dell’uomo dei curli e di una grassa signora (1987); I trofei della città di Guisnes (1988); Gli atlanti di Ar (1990).
Io li conoscevo entrambi, anzi mi pare di ricordare che a presentare Aldo ad Antonio, forse fui proprio io, ché già da tempo ero socio del Sindacato Nazionale Scrittori e conoscevo il suo presidente per via della mia e sua attività politica.